Lavorare in miniera significava infilarsi in un buco ogni mattina e rimanerci per 10/12 ore.
Sempre a martellare sulle pietre e a respirare polveri sottili, rischio la vita per le esalazioni di gas o per i crolli delle gallerie. Il giorno dopo si ricominciava.
Per puro miracolo in tanti si sono salvati negli inevitabili incidenti, altri invece per potare a casa il pane ai propri figli non ce l’hanno fatta.
Nel maggio del 1952 addirittura in quattro sono deceduti contemporaneamente per asfissia di ossido di carbonio nella miniera di contrada Gessi.
Vita dura quella dei minatori, primi tra i lavoratori del meridione ad organizzarsi in sindacati, per il rispetto dei contratti di lavoro e la garanzia di un giusto salario.
Desiderio di sole e di aria fresca, questo era il sogno di tutti coloro che lavoravano nelle zolfare, a partire dalle più gri e produttive come la miniera di Floristella, ma anche in quelle del territorio assorino, come Zimbalio, Donna Carlotta, Vodi e Bambinello, miniere che hanno funzionato ininterrottamente per più di un secolo e che arrivarono a rendere buona parte dell’intera produzione mondiale.
Di tutto questo mondo oggi rimangono tangibili solamente i ruderi, ciò che rimane delle sale con i potenti argani che facevano salire e scendere le gabbie, trasportavano carrelli, minerali e minatori e le officine dove si lavorava sugli attrezzi, le chiesette con l’effige di Santa Barbara, le lampisterie, le cabine elettriche, i forni, le vasche di decantazione.
Permangono sparsi castelletti in rovina, vistose strutture erette alla bocca dei pozzi profondi centinaia di metri per sorreggere le pulegge di rinvio delle funi e le tracce dei calcaroni, ampi forni di fusione in cui si separava lo zolfo rifinito dalle impurità e qua e là tracce della ferrovia, buie gallerie e caselli fatiscenti, superstiti segnali di un lento sistema di trazione a cremagliera per il trasporto dei minatori, abbonato da decenni.
Ciò che invece inevitabilmente precipita nell’oblio è la dura, terribile esistenza di intere generazioni di uomini, le crude testimonianze di padri di famiglia che hanno dovuto lavorare nudi e inabissati al buio in fondo ai tunnel, con turni estenuanti alle dipendenze dei padroni, inondati da fumo che senza scampo portavano gravi conseguenze alla salute.
Lentamente è sbiadita la tenerezza che si leggeva nei visi dei carusi, piccoli schiavi carichi di gravosi sacchi di zolfo di circa il doppio del loro peso, piccoli angeli sottoposti perfino a maltrattamenti e violenze affidati dalle stesse famiglie costrette dalla fame a rudi picconieri, dietro pagamento del cosiddetto soccorso o anticipo morto.
Il tempo ha ormai spento l’eco delle preghiere dei minatori, mormorii di affidamento ai santi misti a bestemmie e urla che lo stesso Signore Iddio li abbonava.